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Vignaioli eroici

Ieri sera al wine bar Ubuntu a Ravenna si è tenuta una degustazione dedicata alle varie forme di ‘eroismo’ nella viticultura, co-organizzata con Francesca Bianchi e Alessandro Dembech.
L’idea partiva ovviamente dal concetto di viticultura eroica. Un concetto che ha trovato concretizzazione istituzionale in una legge del ministero dell’agricoltura del 2016 e in un’associazione internazionale (CERVIM) che coinvolge produttori e associazioni di Italia, Francia, Spagna, Svizzera, Austria, Germania con il fine di promuovere e valorizzare vini prodotti in condizioni di particolare difficoltà.
Siamo partiti dalla definizione canonica di viticultura eroica come viticultura in condizioni geo-climatiche estreme: alta quota, pendenze elevate, terrazzamenti, piccole isole e impianti che obbligano a effettuare tutte le lavorazioni a mano, come in particolare l’alberello.
Sono ‘eroi’ in questo senso tutti coloro che accettano di lavorare in condizioni materiali disagevoli, e così facendo concorrono a realizzare anche importanti beni collettivi come la preservazione del territorio e il contrasto allo spopolamento.
Ci è parso però che questa definizione di ‘eroismo’ fosse un po’ limitativa, e che fosse quindi necessario estenderla a vignaioli il cui lavoro merita particolare attenzione e menzione per altre ragioni, altrettanto nobili.
Pensiamo infatti che siano ‘eroi’, più in generale, tutti coloro che accettano di pagare un prezzo personale per preservare valori che altrimenti andrebbero persi.
Questi valori possono essere: vitigni autoctoni a rischio scomparsa, tecniche e tradizioni viti-vinicole lontane dallo spirito dei tempi, ma anche comunità e valori sociali che attorno ad una cantina possono trovare un forte nucleo di aggregazione.
Ecco allora una nuova definizione di vignaiolo eroico come colui che al prezzo di uno sforzo personale preserva qualcosa di importante, che senza di lui (o di lei) sarebbe andato perduto.
La degustazione è stata l’occasione per discutere della nostra personale lista di ‘eroi’, che trovate qui sotto, assieme ad una breve descrizione dei vini che abbiamo assaggiato ieri sera e dei piatti in abbinamento.
Accompagnata da una breve ‘menzione’ di eroismo.

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Cave Mont Blanc, X.T. Metodo Classico Extra-Brut (Alta quota, vitigno dimenticato)
In abbinamento con: pinzimonio di verdure e olio EVO
Prodotto da uve 100% Prié Blanc provenienti da vigneti posti ad almeno 1.000 mt. slm, coltivati a pergola bassa (protocollo extreme), poi lasciati affinare per almeno 24 mesi sui lieviti.

Un metodo classico dal perlage fine e persistente, con piacevoli sentori di agrumi, fiori bianchi e fieno. Dotato di bella mineralità e discreta persistenza in bocca, il sorso è fresco e la chiusura estremamente pulita.


La Cave du Mont Blanc ha avuto un ruolo importante nella valorizzazione e recupero dei vitigni d’alta quota in Val d’Aosta. Particolarmente attenta alla valorizzazione dei vitigni autoctoni, ha creato il marchio ‘Extreme’ per caratterizzare i suoi vini maggiormente ispirati alla viticultura eroica. E’ il caso di questo Metodo Classico, realizzato da uve 100% Prié Blanc (vitigno autoctono) provenienti da vigneti ubicati oltre i 1.100 metri di altezza e allevati a pergola bassa, una tecnica che impone lavorazioni manuali nella conduzione del vigneto.



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I vigneri di Salvo Foti, Etna Bianco ‘Ante’ 2019 (Etna, alta quota, alberello)
In abbinamento con: pan brioches caprino e salmone
Da uve Carricante (70%), Minnella e Grecanico, coltivate sul versante nord dell’Etna ad una quota compresa tra 850 e 1.200 mt. L’impianto è tradizionale, ad alberello, con densità di circa 8.500 piante per ettaro. Vigne di oltre 40 anni di età.
Una vendemmia probabilmente precoce regala un vino estremamente verticale e tagliente, in stile leggermente sottrattivo, non troppo espressivo al naso ma dotato di incredibile mineralità in bocca. Estremamente fresco e scattante.


Salvo Foti è probabilmente la persona che più ha contribuito alla valorizzazione della viticultura etnea. Enologo e vignaiolo, autore di importanti studi sulla viticultura siciliana, è in particolare all’origine della riscoperta dei principali vitigni autctoni etnei, il Nerello Mascalese e il Carricante, e convinto sostenitore dell’impianto tradizionale ad alberello. I Vigneri è il nome dell’associazione che ha creato per valorizzare il savoir faire tradizionale siciliano. Associa diversi viticoltori artigiani in un progetto orientato al rispetto della biodiversità e delle tradizioni viti-vinicole ancestrali. Ama definire i suoi vini come ‘umani’ e come ‘ancestrali’, proprio a sottolineare questi due aspetti.

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Gabriele, Don Klocks 2021 (Pantelleria, isola, alberello)
In abbinamento con: risotto Acquerello allo zafferano e aglio nero
Da uve 100% zibibbo coltivate sull’isola di Pantelleria in impianto ad alberello. Vinificazione interamente in acciaio inox. Fermentazione sulle bucce di qualche giorno.
Il colore è giallo oro antico brillante, al naso i profumi di albicocca tipici dello zibibbo si intrecciano con forti note di macchia mediterranea. In bocca è persistente, ampio, decisamente sapido.


Antonio Gabriele fa parte di quei piccoli vignerons che con piglio ostinato continuano a lavorare a mano le vigne di questo piccolo angolo di paradiso, valorizzando vitigni autoctoni come lo zibibbo e perpetuando la pratica della coltivazione ad alberello.

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Aldo Rainoldi, Nebbiolo ‘Alpi Retiche’ 2021 (Lombardia vigneti abbandonati, terrazze, pendenza, alta quota)
In abbinamento con: uova di quaglia e noce moscata
Il vino è realizzato con uve provenienti da vigneti siti nei Comuni di Tresivio e Ponte in Valtellina, tutti ricadenti all’interno della DOC “Rosso di Valtellina”. L’esposizione dei terreni è verso Sud, ad un’altezza di 250 metri sul livello del mare. L’affinamento avviene unicamente in vasche di acciaio per preservare la freschezza del vino.
E’ un nebbiolo dal colore rosso rubino scarico, dai profumi freschissimi di fruttini rossi e con una leggerissima speziatura. Il sorso è sostenuto da un’acidità decisa e rinfrescante, mentre i tannini risultano del tutto delicati. Una buona materia equilibra l’acidità e rende il sorso fresco e piacevole.


La cantina Aldo Rainoldi fa parte della seconda generazione di vignaioli valtellinesi. Dopo l’opera pionieristica di Guido Negri, a cui si deve la valorizzazione iniziale della Chiavennasca (nome locale per il Nebbiolo), sono però i vignaioli della generazione successiva quelli che investono in una viticoltura di qualità e portano i vini valtellinesi nell’olimpo dei vini italiani. La cantina Rainoldi ha guidato il rinascimento valtellinese degli anni Novanta, e continua a costituire un punto di riferimento ancora oggi.

 

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Walter Massa, Derthona Timorasso 2021 (Piemonte, vitigno dimenticato)
In abbinamento con: focaccia con mortadella, formaggio di fossa e granella di pistacchi
Il colore è giallo oro brillante, al naso i profumi tipici del timorasso – frutti a pasta gialla – emergono prepotenti. In bocca il vino è ampio e ha quasi la materia di un vino rosso. Una bella acidità sorregge bene il sorso e i 14° di alcol rimangono sullo sfondo. Un’interpretazione da manuale, quasi didattica, del vitigno che Walter Massa ha fatto conoscere nel mondo.


Walter Massa è il vignaiolo che certamente si è impegnato di più per riscoprire e valorizzare il Timorasso. Un vitigno a bacca bianca autoctono del basso Piemonte (Alessandria e tortonese), progressivamente scomparso dopo la crisi della Fillossera. Abbandonato come altri vitigni considerati non abbastanza produttivi, o troppo difficili da coltivare. E’ a partire dagli anni ’80 che Walter si dedica in modo instancabile a ripiantare appezzamenti di Timorasso e a promuoverlo sui media e sulle più importanti tavole italiane. Ci sono voluti oltre tre decenni perché il mercato riconoscesse a Walter il valore inestimabile del suo lavoro di riscoperta e conservazione.

 

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San Patrignano, Sangiovese di Romagna Riserva AVI 2014 (Emilia Romagna, recupero sociale)
In abbinamento con: tigella con sfiandrine e guanciale di mora romagnola
Dopo una lunga macerazione sulle bucce in vino affina in tonneaux per almeno 24 mesi
Un sangiovese intenso e profondo, che coniuga in modo magistrale eleganza e potenza. Un risultato sorprendente anche in considerazione dell’annata in cui è stato prodotto, la 2014.


San Patrignano ci rimanda ad una forma ancora diversa di eroismo: qui la coltivazione della vite e la produzione del vino diventano gesto etico nel progetto di recupero umano e sociale che contraddistingue la comunità fondata da Muccioli. E’ dall’impegno dei giovani della comunità che nasce questo vino sorprendente. A testimonianza del fatto che l’eroismo enoico non è solo questione di clima, suolo e vitigno, ma è anche capacità di iscriversi in un progetto sociale e culturale di recupero, perché la vite è vita, in tutti i sensi del termine.

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De Bartoli, Bukkuram, 2021 (Pantelleria, isola, alberello)
In abbinamento con: Piccola pasticceria secca.
Zibibbo 100%, 2.500 ceppi per ettaro coltivati ad alberello pantesco. Appassimento al sole di una parte delle uve per almeno due settimane in appositi stenditoi, delimitati da grossi muri in pietra lavica. La rimanente parte matura sulla pianta fino a settembre. A fermentazione avanzata con lieviti indigeni, l’uva appassita in precedenza, e sgrappolata a mano, viene aggiunta al vino a più riprese e lasciata a macerare per circa tre mesi fino a ottenere un equilibrato rapporto tra la componente alcolica e il residuo zuccherino. Segue un breve passaggio in botte di almeno 6 mesi e un affinamento in vasca d’acciaio prima di andare in bottiglia.
Il colore è ambrato, dominano i profumi di frutta secca e albicocca. In bocca è ampio e suadente, il residuo zuccherino è in perfetto equilibrio con l’acidità del vino e non appare mai eccessivo. Perfetto l’abbinamento con biscotti secchi di mandorle.


Marco de Bortoli è un pioniere della viticoltura di qualità in Sicilia e il suo nome resta indelebilmente legato alla rinascita del vino Marsala. De Bartoli è tra i primi ad abbandonare la produzione industriale di Marsala per tornare a farne un vino artigianale di altissima qualità. Nasce così il Samperi. Un marsala prodotto secondo il metodo ancestrale della riserva perpetua: in un’unica botte confluisce ogni anno il vino nuovo e si sottrae quello per il vino in corso di produzione. Il risultato è un blend di annate che opera una sintesi del tempo.
Marco è stato un eroe perché quando ha iniziato, riconvertire l’enologia industriale in enologia artigianale, in Sicilia, era quasi un’eresia. Un progetto considerato folle dai più, e che invece, a distanza di decenni, ha permesso di far uscire dall’oblio un vino oggi finalmente riconosciuto al suo giusto valore.
L’uso delle botti scolme e del metodo perpetuo facevano parte di tradizioni antiche poi abbandonate. Il Vecchio Samperi è una forma di reinvenzione della tradizione: qui stanno la grandezza e il genio di Marco de Bartoli. 
Anche il passito di Pantelleria, oggi di gran moda, era praticamente inesistente negli anni Ottanta quando De Bartoli decide di iniziare a produrlo. In entrambi i casi, il lavoro di Marco de Bartoli è stato un lavoro di scoperta e di ritrovamento di tradizioni antiche dimenticate. I suoi sono vini nuovi e al tempo antichissimi.

 

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